Non si sa mai quando comincia

Non si sa mai quando comincia.
Non ci sono segni, indizi, suoni di campane o fulmini dal cielo.
E' un giorno qualunque, di cui non ci si ricorderà forse nemmeno quando poi, più tardi, nelle lunghe ore con gli occhi al soffitto, si cercherà di ricostruire l'inizio dell'incubo.

Un colpo di tosse, un piccolo malessere, un ginocchio che cede all'improvviso, qualcosa di banale, cui non si dà peso.
Si può dar peso ad una cosa tanto insignificante?
Si può pensare che sia l'inizio della propria fine? 
No, nessuno di noi è pronto a farlo. 
Si pensa di aver mangiato troppo, di aver forzato troppo in palestra l'altra sera, basterà riposarsi un po', saltare la cena al ristorante con gli amici, e voilà, domani sarà tutto passato, come nuovi. 
E, per un po', funziona. 
Il nostro corpo ci lascia illudere. 
O meglio, la nostra mente riesce ad illuderci nonostante il nostro corpo. 
Semplicemente ignora i segnali, sempre più evidenti. 
Non ne vuole sapere di prenderne atto, di pensare, anche vagamente di avere un problema, di aver bisogno di aiuto, di dover cambiare i propri progetti, le proprie scalette, il ritmo della propria vita. 
No, non è proprio possibile.
Anche a Silvia successe così. 
Un giorno d'inizio estate, la bimba da andare a prendere all'asilo, e quella gamba che cede, che non vuole rispondere ai comandi, che fa zoppicare. 
Che succede? 
Perché? 
Passerà ... 
Ecco, è passato, andiamo. 
Ma poi succede ancora, ancora e ancora. 
Tocca proprio andare dal medico, cercare di capire che succede. 
"Dottore, che succede?"
Giorni, settimane, di esami, di visite, di consulti. 
Lunghe attese dei risultati, di una diagnosi, di una cura che, finalmente, risolva tutto. 
Perché si deve risolvere, non si può zoppicare così a 38 anni, non è proprio possibile, deve finire.
Un ricovero, il primo, per accertamenti. 
E poi la diagnosi arriva. 
Fredda, inappellabile. 
Eppure non creduta, sottovalutata, neanche tanto patita perché sicuramente è un errore, sicuramente non è vero, sicuramente questi medici non hanno capito. 
Andiamo a Milano, lì sono più bravi, lì risolveranno, troveranno la cura. 
Ma no, anche questi concordano con gli altri: stessa diagnosi. 
Stessa condanna. 
Spiegata, ma non tanto. 
Raccontata, ma non chiaramente. 
Si tralasciano i dettagli, le tappe della terribile via crucis che la aspetta, si lascia spazio alla speranza, anche nei colloqui con i famigliari, si dilatano i tempi della sentenza. 
Bisogna ricoverarsi, accettare il distacco dalla bimba, accettare di curarsi come vogliono i medici, stare al gioco, pensando sempre di farcela, di sfangarla anche questa volta, di beffare ancora il destino, come tante volte in passato. 
"Io sono forte, ce l'ho sempre fatta, ho attraversato una vita complicata e sono qui, ho vinto, sono invulnerabile". 
Ma la gamba non risponde più, si paralizza, non sostiene più il peso. 
Tutta la parte destra in realtà sta diventando strana, anche il braccio comincia a funzionare male, non si alza più come prima, non ha più la forza, la mano si contrae e non si apre più senza aiuto.
Tappe. 
La sofferenza avanza a piccole tappe, i gradini che portano all'inferno si scendono ad uno ad uno ma ognuno di essi comporta grandi rinunce difficili da capire, da accettare. 
Perché? 
Un virus. 
Può un virus, una cosa così astratta, così piccola, invisibile, essere così feroce, così crudele, così potente da cambiare completamente una vita? 

Quante cose bisogna subire, malgrado noi, malgrado la nostra rabbia infinita! 
Non essere più autonomi, che tormento! 
Lei, così ossessionata dalla pulizia, dall'ordine, dall'essere a posto, non potersi più occupare della sua casa, della sua bambina, di se stessa! 
Accettare mani estranee che ti lavano, che ti vestono, che ti aiutano, con amore, sì certo, ma non come faresti tu...
Dipendi da tutti ora ma, dentro, sei ancora totalmente indipendente, testarda, puntigliosa nel voler fare a modo tuo, certa di ciò che vuoi e che pretendi, sempre, con le proteste o con il tuo sguardo silenzioso ed eloquente. 
Il corpo cambia velocemente ma l'immagine che abbiamo di noi stessi è molto più lenta, non si adegua alla realtà evidente del decadimento esteriore. 
Dentro rimaniamo lo stesso bambino che correva con l'aquilone, lo stesso ragazzo innamorato, lo stesso uomo o donna di prima, anche inchiodati in un letto e piagati da una qualunque malattia, anche se abbiamo novant'anni. 

Un virus. 
Cosa fa un virus? 
Vive, semplicemente. 
Fa il suo mestiere, ciò per cui è nato, nella più totale inconsapevolezza ed indifferenza per l'organismo che lo ospita e di cui segnerà la fine. 
Non prova odio, non è cattivo, non è un nemico, è un virus. 
Si infiltra nel cuore delle cellule del sistema nervoso e le distrugge, piano piano, a poco a poco, non ha fretta, lui. 
Eppure è così veloce! 
Silvia ci prova a stare al suo passo, ma è così difficile! 
Ogni tanto si ribella: si fa dimettere, vuole stare un po' a casa, vuole stare fra le sue cose, con suo marito, con la sua bimba. 
Ma è così difficile! 
Tutto è difficile. 
Non si può muovere. 
Ci prova e cade, la parte destra non funziona, ma non vuole rassegnarsi, non vuole cedere all'evidenza, forse sa, forse comincia ad intuire che non ci sarà scampo e non vuole accettarlo, vuole combattere. 
Il tormento della fisioterapia. 
Ogni giorno. 
Che fatica! 
Lasciare che la fisioterapista muova le sue parti immobili ed esercitare tutto il resto perché resista, perché non ceda anch'esso agli attacchi del virus. 
Una fatica immane, che spossa, che strema, poi bisogna dormire, riposare, recuperare, se il dolore lo permette. 

Già, il dolore.
E' arrivato. 
Subdolo, insinuante, ha cominciato a poco a poco ad abitare il suo corpo, ci si è installato, con l'arroganza di un padrone che prende possesso dei suoi alloggi, e non se n'è più andato.
Ironia della sorte: 
Silvia è paralizzata ma i suoi arti immobili sentono tutto, non sono insensibili come ci si aspetterebbe, no, lei sente tutto: il dolore, il caldo, il freddo, i massaggi, le carezze...

Bisogna di nuovo cedere, di nuovo tornare in ospedale e poi accettare che nemmeno quello sia più il posto giusto, ci vuole un luogo per lunghe degenze, il ritorno a casa si allontana sempre più, diventa un miraggio, un sogno irraggiungibile. 
Ora c'è la casa alloggio. 
Questa è diventata la realtà quotidiana. 
Ora c'è la sedia a rotelle, superleggera, ottimisticamente scelta perché lei possa manovrarla con la mano sinistra. 
Silvia non riuscirà mai a manovrarla. 
Anche il suo braccio sinistro comincia a perdere le forze. 

Tappe. 
Altre angoscianti tappe del declino. 
Silvia non spera più di guarire, spera solo di non peggiorare, è preoccupata per la sua famiglia ma ci prova ad accettare, tenta veramente, sinceramente di adeguarsi alla situazione, di scendere a patti con la sorte. 
"Io non mi lamento, mi impegno in tutto, ma tu fermati, fammi restare almeno così, non farmi peggiorare".

Ci prova, ma non ci riesce. 
Tutto cambia troppo velocemente, i sintomi si sommano ai sintomi, non fa in tempo ad adattarsi ad un cambiamento che subito la incalzano altri, tutti dolorosi, pesantissimi, che la sommergono, la terrorizzano, la fanno rotolare velocemente in questo abisso di dolore, di rabbia, di ribellione, di disperazione da cui non riuscirà più ad emergere. 
Silvia comincia a parlare di morte, comincia a desiderarla, come una liberazione, credo soprattutto dalla paura di vedersi ogni giorno precipitare un po' di più, dalla paura della propria impotenza, dalla paura di morire senza poter neppure chiedere aiuto. 
Sì, perché ora Silvia è di nuovo in ospedale, la paralisi avanza inesorabile, le blocca i muscoli della deglutizione, non le permette più di inghiottire nulla; e poi quelli della parte sinistra del corpo: non può più suonare il campanello per chiamare quando il dolore la tormenta, quando deve essere cambiata, quando ha bisogno o paura; e poi se ne vanno anche i muscoli che permettono il linguaggio, non riesce più a parlare, emette suoni incomprensibili. 

Dio, il tormento di quei suoni disperatamente urlati, di quegli occhi imploranti comprensione ed aiuto! Per molti giorni l'ultima parola comprensibile, l'unica parola rimasta era "Mamma", la prima e l'ultima della vita, chiara e nitida fra gli altri suoni, commovente.

Molti, lunghi giorni, vissuti come una cosa; posata su un letto, come una bambola. 
Spostata, accudita, mai lasciata sola nelle lunghe ore del giorno. 
Una vita scandita dal lento gocciolio delle flebo, non c'è più giorno o notte, i suoi occhi non vedono più, la chimica le allevia il dolore e le ruba la coscienza precipitandola in un lungo sonno artificiale. 
Una vita che continua. 
Sì, perché Silvia vive.
Ancora. 
I suoi occhi piangono.
Il suo viso esprime, dolore, disperazione infinita, rabbia potente, abissi di paura.

Silvia vive. 
E la sua vita, o la sua non-vita, secondo come la si voglia vedere, interroga chi le sta attorno, interroga le coscienze, cambia i protocolli...
Dove finisce una vita? 
in che momento? 
Quando si può, si deve, lasciar andare? 
Quando non è più rispettoso per un essere umano accanirsi a "curarlo"? 
Dov'è la dignità, quando il corpo si gonfia, si piaga, perde liquidi, maleodoranti, colorati, inimmaginabili, senza nessun controllo? 
Chi è ora Silvia? 
Perché questo lunghissimo calvario? 
Destino? 
Punizione divina per chissà che peccato? 

Domande. 
Tante domande cui ognuno risponde come può, come sa, come riesce. 
Sofferenza comune difficilmente condivisa. 

Silvia finalmente non c'è più. 

Ancora, docile come una bambola, il suo corpo è lì, sul letto e si presta alle coccole di chi le ha voluto bene. 

Mani gentili e affettuose che la vestono, la truccano, la pettinano, la rendono carina, come le piacerebbe se potesse dircelo; si occupano di lei con il sollievo di poter finalmente fare qualcosa dopo tutti quei lunghi mesi di impotenza. 

E chissà, forse finalmente non c'è più sofferenza... forse.


un'accompagnatrice