Povera cosa posata su un letto

Una vita.... posata su un letto, come una cosa, come un oggetto. 
Sogni, 
paure, 
rabbia, 
speranza, 
disperazione, 
futuro e passato, 
parole e risate, 
piccoli gesti, 
tutto racchiuso lì, 
in quella cosa posata su un letto...

E ognuno arriva, le parla, le urla, la accarezza, la sposta, la lava, 
la cura con mille gesti freddi, professionali, 
oppure teneri, umani, ma spesso lontani da lei...
Tutto si muove attorno alla sua immobilità, 
voci, luci, suoni, persone, pensieri, tutto le vortica intorno...

Ognuno porta se stesso accanto al letto e si impone. 
Medici, infermieri, amici, parenti, 
ognuno con la propria sensibilità ferita 
o la propria ricetta preconfezionata, 
ognuno con i propri lutti e le proprie paure, 
tutto confuso, tutto ingestibile, 
tutto che ruota lì, nella stanza, attorno a quell'immobilità compressa.

Coscienza rubata, 
vita sospesa in quello stillicidio continuo di gocce, 
che "tranquillizzano", 
che rubano le emozioni, 
annebbiano i pensieri, 
eliminano il dolore e, 
soprattutto, il senso...

Quel corpo è una bomba, è un concentrato di rabbia, 
di paura, di disperazione; 
è una somma di incompiuti, un'enciclopedia di dolore e di fallimenti, 
tutto non compreso, non espresso, non elaborato, 
ma non per questo meno vivo, meno presente, meno invasivo.

Sedare, curare, fino a praticare l'eutanasia della coscienza.
No, non per lei, per tutti gli altri. 
Per chi, giorno dopo giorno, non regge alle sue urla, 
ai suoi lamenti, ai suoi rantoli...
Per chi avverte la sua disperazione e non sa che farne,
si spaventa, si ritrae, 
si vergogna di sé e vorrebbe troncare ora la sua vita, 
perché non c'è rimedio, perché quel che è fatto è fatto, 
perché non ha più nemmeno una possibilità...
Morirà incosciente.
Non potrà nemmeno giocarsi la chance 
di rimettersi al mondo prima di morire... 
Come si vive,
costretti in un corpo senza più comandi, 
costretti all'immobilità, 
costretti al silenzio?
Come si vive, 
costretti a non poter urlare la propria rabbia potente, 
la propria disperazione, 
la propria paura? 
Come si vive,
nel terrore costante di morire senza poter chiedere aiuto? 
Come si vive, 
annebbiati dai sedativi? 
Che sogni si fanno? 
Dove viaggerà la tua mente, mentre dormi il tuo sonno artificiale 
...e però i tuoi occhi piangono?

Dove sei? 
Dove vai? 
Che senso ha tutto questo? 
E io, qui accanto a te, che senso ho? 
Cosa ti porto? Cosa mi regali tu? 
Un sacco di domande: questo è il tuo regalo.

Porsi le domande giuste porta ad osservare, a riflettere, 
a comprendere ed a cercare soluzioni...
Accanimento terapeutico, accanimento palliativo...
è il principio che è sbagliato, 
perché si tratta sempre di qualcosa di imposto, di non concordato. 
E' sempre qualcosa che nasce dalla paura di qualcun altro, 
di qualcuno che non sa accettare la parola fine, 
che non accetta la propria impotenza, 
che non accetta di non essere Dio...

Qualunque cosa, 
se fosse concordata, non sarebbe accanimento ma libera scelta...
Ma tutti si prendono grosse responsabilità, 
di non informare, 
di dire mezze verità, 
di non proporre alternative, 
di giudicare cosa è meglio per il malato, 
tranne l'unica che avrebbe davvero un senso: quella di accompagnare.

Oh sì, la morte disturba. 
Prima commuove, spaventa, 
turba e solleva intorno a sé il polverone della pietà, 
del dovere di assistenza, delle promesse inverosimili...
Poi disturba. 
Interferisce con i ritmi, con la vita, col lavoro. 
Stanca. Irrita. 
Questo tirare in lungo...
non c'è niente di efficiente in un'agonia prolungata. 
Non è chic. Non è più neanche drammatica. 
E' solo irritante perché non ti permette di programmarti la vita, 
perché ti rinchiude nell'immagine dello sfigato 
costretto ad assistere per forza, altrimenti è una carogna. 
Nella società del fast un'agonia non è elegante, 
non è trendy, sembra quasi un dispetto.

E allora, poco a poco, spariscono tutti: 
gli amici che tanto affermavano di non sentirsi di lasciarla sola, 
quelli che "scusa sai, non ce la faccio proprio a vederla così, 
voglio ricordarla com'era", 
i familiari che scappano con mille scuse 
ed iniziano a comportarsi come se già fosse morta. 
Che ironia!

Un mondo in cui non si è liberi di morire al proprio momento 
perché qualcuno si accanisce a mantenerci vivi e, 
nello stesso tempo, 
proprio mentre sei lì, solo, con la bocca aperta 
e tutto il dolore del mondo addosso, 
essere già considerato cadavere, 
anche un po' rompicoglioni, 
perché non si decide ad andare sotto terra, 
nel posto che gli compete.

Povera cosa posata su un letto, a chi interessi più? 
Chi ha il coraggio ancora di amarti, 
incosciente, piagata, maleodorante? 
Chi si ricorda che sei viva, sì, anche adesso? 
Chi si ricorda che quelle stesse mani, gonfie, blu, inutilizzabili, 
hanno accarezzato? 
Che quella bocca screpolata e sbavata, ha baciato? 
Che quel corpo ha amato e partorito?
Che quella mente ormai persa ha pensato e sognato?

Sedare, non per prendersi cura ma per zittire le urla 
che i vivi non sopportano...
Ma almeno, per quanto spauriti ed inadeguati,
questi vivi che restano qui, nonostante tutto, 
forse un cuore ancora l'hanno, 
almeno il dolore lo percepiscono e ne restano turbati. 
Forse si interrogheranno. Forse troveranno delle strade. 
Chi scappa non trova niente, non elabora niente, 
spreca solo occasioni e crea altra sofferenza.

Ti guardo per ore: 
dormire, vagare chissà dove, soffrire, piangere, urlare, e non capisco. 
Non ho risposte. 
Non so a cosa serva tutto questo, se serve.
Non so se per te ha un senso.
Non so se è la tua storia 
o se qualcuno la sta decidendo per te. 
Io sono qui, testimone silenziosa e impotente, non ti abbandono.

Vengo con te, per un po', nel tuo silenzio e, fin dove posso, 
ti accompagno.

un'accompagnatrice